Lo studio della famiglia include vari campi della psicologia (psicologia dello sviluppo, psicologia giuridica), della psicoterapia, della sociologia, della pedagogia e di altre discipline. Per questo la competenza dello psicologo familiare è complessa: prevede l’integrazione di approcci diversi, la conoscenza del paradigma sistemico e una particolare attenzione alla posizione dell’individuo all’interno delle relazioni.
Fare una diagnosi, cioè valutare clinicamente una famiglia, è un processo conoscitivo a cavallo tra l’assessment e l’intervento psicoterapeutico stesso. Con la parola diagnosi solitamente si intende la definizione di una famiglia secondo la diagnosi psichiatrica data al portatore del sintomo (ad esempio, “una famiglia schizofrenica” laddove un componente della famiglia ha ricevuto la diagnosi di schizofrenia).
A volte invece si utilizza la diagnosi come un’etichetta che ha la funzione di descrivere una particolare caratteristica emergente nella famiglia. Spesso la diagnosi/etichetta rischia di calcificare processi disfunzionali della famiglia, rendendo ancor più complicato l’intervento terapeutico.
Una famiglia, per esempio, può essere etichettata come “disorganizzata”, “caotica”, “schizofrenica”, o “intellettualizzata”, e questa descrizione entra a far parte del senso d’identità, che la famiglia stessa sente come propria, anche (o in particolar modo) perché sostenuta dalla diagnosi dei medici o degli psicologi.
Nell’ambito delle relazioni familiari, dunque, la diagnosi lascia spazio a un processo conoscitivo che è esso stesso l’inizio di un intervento terapeutico, e il trattamento, a sua volta, è un processo di valutazione continuo che tiene conto delle conoscenze dello psicologo, della sua sensibilità, della sua formazione teorica e della sua esperienza.